mercoledì 16 ottobre 2013

Una nuova via? La postproduzione come remix


Sandro Bini - Gennaio 2010

Se ragioni sociali, di comunicazione, e di mercato portano ultimamente a una svalutazione della forza contrattuale dei fotografi nella comunicazione visiva, nuove figure professionali prendono la ribalta: curatori, blogger, critici, photoeditor e postproduttori. Su quest’ultima categoria avrei qualche riflessione e domanda da fare. Se è sacrosanto riconoscere e accreditare per ogni tipo di pubblicazione la loro professionalità, e se è vero come dice Fred Richtin che il fotografo digitale è “il disc jokey visivo del postmoderno”, seguendo un po’ quanto successo e accade nel mondo musicale mi domando: sarà possibile vedere in futuro (o magari ci sono già dei casi in giro che vi prego di segnalare),  una versione “remix” di un lavoro fotografico?  Magari da parte dello stesso fotografo o di un altro fotografo-postproduttore? Sarebbe plausibile, legittimo, auspicabile una versione fotografica "riposprodotta" magari per un classico della fotografia, ovviamene con il consenso dell'autore? O magari due o più versioni di uno stesso progetto con una versione "remixata" dello stesso o di un altro postproduttore? Potrebbero essere in questo modo rivelate potenzialità estetiche e di contenuto inespresse di un progetto? Potrebbe essere un modo di rilanciare autori e professionalità? O sarebbe solo una furbata di mercato? Mi piacerebbe davvero sapere come la pensate e sviluppare una discussione sul tema.

lunedì 2 settembre 2013

"Late photography": per una fotografia fuori dal coro.



Sandro Bini - Galitian Journey - Luglio/Agosto 2009


Una delle cose positive della odierna smart phone photography è che la marea delle foto delle vacanze viene diluita in diretta fra luglio e agosto nel mare dei social e non arriva più tutta insieme come un devastante tsunami di fine estate. Insomma perde un po' della sua forza d'urto e volendo ci si può salvare… Una cosa però che forse si sta perdendo e si perderà sempre più è la socialità reale e conviviale dei salotti settembrini per farle vedere a parenti e amici, che (con tutte le controindicazioni del caso) era però una bella scusa per passare una serata in compagnia. Il preambolo, se ancora non si fosse capito, serve a ribadire il fatto che grazie o per colpa della attuale tecnologia, la socialità promossa e celebrata dalla “fast photography” telefonica sta diventando sempre più una socialità virtuale consumata in tempo reale, e chi non dispone della tecnologia adeguata (smart phone e relativa App di condivisione) è fuori dal gioco. E’ questo il motivo credo per cui gli apparecchi digitali compatti e reflex (prima di essere forse del tutto fagocitati dalla telefonia) si stanno dotando e si doteranno sempre più in futuro di tecnologie adeguate che diano la possibilità di una condivisione immediata (dispositivi wi fi e simili) mentre nello stesso tempo la tecnologia della telefonia mobile raggiungerà  prestazioni sempre più vicine a quelle di un odierno apparecchio fotografico di media fascia. Chi in futuro, pur senza arrivare alle  forme di resistenza analogico-integralista della “slow photography” resterà fedele a una fotografia più lenta, scattata con una fotocamera e non con un cellulare o perlomeno non condivisibile e consumabile in diretta (“late photography”), sarà irrimediabilmente un click fuori dal coro, condannato ad arrivare sempre fuori tempo massimo non solo nella celebrazione sociale del rito vacanziero e familiare ma anche nell’informazione visiva di cronaca e attualità. Il  suo ruolo di outsider sarà quello di ammonire e ricordare, con l’alta probabilità di non essere capito che, come una volta, forse in futuro saranno  importanti le fotografie che nel tempo abbiamo scelto e curato e che avranno valore e spazio quelle che, sempre nel tempo, resteranno vive nella nostra memoria e non saranno dimenticate per sempre nel mare della rete.

giovedì 11 aprile 2013

Dall’informazione all’intrattenimento: le ingenue domande sugli sviluppi di una professione.



Sandro Bini, img 7226, Marzo 2013

Le recenti polemiche nate e sviluppatesi intorno ai Premi di fotogiornalismo, in cui non mi voglio impantanare, mi fanno riflettere stavolta sugli sviluppi di una professione forse in crisi, sicuramente in rapidissima trasformazione, nonché venir la voglia di interrogare tutti i mei lettori, e in particolar modo quelli più attenti e navigati sulle questioni legate al fotogiornalismo  ai  quali chiederei il favore di rispondere in modo altrettanto semplice e chiaro ad alcune "ingenue" domande:
 
1) Per vincere i premi di fotogiornalismo occorre essere fotogiornalisti più o meno accreditati e aver pubblicato i propri lavori in un organo di informazione? Si? No? E se no come mai? E perché? Ovvero (è di fatto la stessa domanda): come fotografi si è lavorato per vendere un servizio e dare una notizia o un approfondimento su un tema o solo per partecipare a un concorso nella speranza di  vincere un premio? 
2)  Se il reportage è "un racconto per immagini", ha senso nei Concorsi di fotogiornalismo premiare un singolo scatto? 
3) Un servizio su un evento minore e/o non di attualità può legittimamente aspirare a un premio? Oppure no? E se no come mai? E perché? 
4) Infine si partecipa a un premio per consacrarsi o si gareggia per entrare nel "giro"? Ovvero il premio consolida una professione già avviata o di fatto rappresenta l’unico modo per un giovane fotografo di entrare nel mercato?


Finite le domande, passiamo oltre, alla riflessione generale che vorrei fosse altrettanto chiara. Mi sembra che oggi la professione di fotoreporter sia in un ripido declivio: quello del passaggio dall’informazione (leggi editoria) a quello dell’intrattenimento (leggi premi e festival connessi). Niente di male, ma il fotoreporter da testimone-informatore rischia di diventare (qualcuno glielo devo pur dire) intrattenitore turistico-culturale o addirittura un Artista con tutti i diritti, in quest’ultimo caso, di photoshoppare come e quanto gli pare. Sarebbe utile però che si incomiciasse a dirlo e in questa rinnovata veste, almeno alcuni, incominciassero a presentarsi a pubblico e critica.


martedì 15 gennaio 2013

Analogic born e Digital native: quale differenza?

ph Sandro Bini - Love frames - Parigi 2001
Se il dibattito non solo teorico sulla fotografia ruota ormai da quasi un decennio sulla vera o falsa che sia rivoluzione digitale, che ha portato in ogni caso notevoli conseguenze su comportamenti fotografici e pratiche sociali, questa volta voglio interrogarmi e interrogare i miei lettori per cercare di capire quale sia la differenza (profonda e non solo di superficie) fra un Analogic born e un Digital native: ovvero fra chi come me è nato fotograficamente in era analogica e ha patito più o meno il passaggio al digitale e chi come molti giovani nati negli anni Novanta è cresciuto fotograficamente in era digitale e non ha conosciuto se non marginalmente rullini, laboratori, sviluppi e stampe dove guardare le fotografie scattate per la prima volta. Che differenza c’è insomma fra un madrelingua digitale e un digitale acquisito? Chi meglio se la cava con pixel menu e software e chi comprende meglio la natura del fotografico? E se un Digital native ritorna all’analogico? Come se la cava? Questo ritorno ha un influenza sulla sua visione e la sua pratica anche quando fotografa in digitale? Ci sono in rete gruppi di analogici integralisti e digitali convinti, e tutti con ottime motivazioni (etiche, estetiche ed economiche) a difesa della loro scelta. A me piace collocarmi e difendere invece una posizione intermedia, diciamo crossover, che utilizza e pratica, a seconda dei casi e senza particolare enfasi o sgomento, le due tecnologie per adesso ancora disponibili sul mercato. Mi viene in mente subito, come spesso mi capita, il paragone con il panorama musicale, dove la rivoluzione digitale è avvenuta con qualche decennio d’anticipo, ma dove esistono tuttoggi strumenti analogici e strumenti digitali e musicisti che preferiscono gli uni o gli altri o che invece sperimentano contaminando le tipologie dei suoni. Ma tornando alla domanda principale (Quale la differenza fra un Analogic born e un Digital native?), a parte aimè l’età, credo che stia sopratutto nella faticosa resistenza di atteggiamento forse più attento e responsabilizzato verso lo scatto e ad  un piacere della dilazione e della “latenza” dell'immagine più allenata perché più o meno a lungo coltivata: un approccio maggiormente “desiderante” che non si accontenta ancora del riconoscimento immediato (I like) ma ne ricerca forse, ancora non si sa per quanto, uno più duraturo nel tempo (I love).