domenica 30 settembre 2012

Dalla “fotografia diretta” alla “fotografia in diretta”: excursus per un dibattito sul “mondo fatto immagine”.


ph Sandro Bini, Live photography (Firenze 2010)

Negli anni Venti e Trenta del Novecento negli Stati Uniti e in Europa emerge e si consolida una concezione di fotografica che con l’avvento della società industriale prende decisamente le distanze dal pittorialismo impressionistico che aveva contraddistinto la parziale e faticosa emancipazione della fotografia come arte nei decenni precedenti, e che nella difesa di una presunta specificità e autonomia del mezzo credeva in un utilizzo puro (ottico, chimico e meccanico) dei propri strumenti di lavoro. Questa evoluzione “modernista” del linguaggio fotografico, accompagnata da un rinnovamento nei temi e nei motivi di ricerca e da un “eroismo della visione” che assunse forme e nomi diversi (“straight photography” in America, “new vision” e "neue sachlicheit" in Europa), fu accompagnata in quegli anni da una importante riflessione teorica sul mezzo fotografico (Benjamin su tutti) e da una interessante sperimentazione in ambito artistico da parte dei movimenti delle avanguardie storiche (futurismo, dadaismo, surrealismo), nonché da una applicazione pratica e funzionale nella fotografia industriale e pubblicitaria (Bauhaus) e nella informazione (con la nascita del fotogiornalismo) che la portarono a piena maturazione. La “visione diretta” si consolidò e si diffuse nei decenni successivi, almeno fino agli anni Sessanta, quando nuovi sviluppi storici (economici, politici, sociali, culturali) e mediali (l’avvento della TV) ne segnarono una irreversibile crisi di fiducia e di identità. All’eroismo oggettivo della visione fece seguito da un lato una visione “debole” e sempre piu soggettivizzata, che dubita apertamente della verità dell’immagine (passibile ad ogni tipo di strumentalizzazione politica ed ideologica) od una visione completamente automatizzata e/o concettualizzata che rinuncia provocatoriamente, politicamente, ad ogni forma di sguardo e formalismo autoriale, affidando al solo meccanismo ottico-chimico, o al recupero colto degli usi popolari e commerciali, il compito di svelarne “sovrastrutture ideologiche” e “inconsci sociali”. Non sto per motivi di tempo ad approfondire questi interessanti sviluppi di una crisi che ha visto impegnati numerosi correnti, artisti e pensatori, e che ha dato notevoli risultati sia in termini artistici che di riflessione teorica,  in quanto quello che sopratutto mi preme sottolineare è come oggi, negli anni Dieci del Nuovo Millennio, contraddistinti da Internet e da una massiccia informatizzazione e medializzazione del reale,  la “fotografia diretta” (quella estetica tecnologica utopistica e fiduciosa nei poteri rinnovatori e di testimonianza del mezzo nata negli anni Venti e consolidatasi fino agli anni Cinquanta del Novecento con il boom del suo utilizzo editoriale) si è ormai trasformata nel nuovo realismo digitale di massa della fotografia “in diretta”, realizzata e vista da tutti globalmente e in tempo reale sugli schermi (grandi o piccoli) che catalizzano ormai costantemente il nostro tempo e il nostro sguardo (dai display delle foto e videocamere digitali alle pagine web dei socialnetwork e delle testate web giornalistiche). Grazie alla diffusione democratica e capillare dell’immagine digitale tramite i telefonini e il web la visione diretta (straight) della fotografia analogica, che (pur sempre mediata da un apparato tecnologico) aveva come approdo quello temporalmente differito  della stampa (quotidiani, riviste, album fotografici), si fa sempre piu “in diretta” nel duplice senso di “live”, ovvero medializzata e socializzata in tempo reale (l’immagine che istantaneamente appare su uno schermo e può essere facilmente condivisa fra i presenti e comunicata in rete in tempi sempre più rapidi) e di una visione che ossessivamente e istantaneamente si trasforma in immagine senza bisogno di nessuna gestazione o attesa, creando immediatamente uno schermo di pixel, non solo fra noi e quella che per comodità continuiamo a chiamare realtà, ma anche (almeno in parte) fra noi e l’immagine mentale di come potrebbe essere la foto che abbiamo appena scattato (perdita della latenza). Ecco sono soprattutto le conseguenze (antropologiche, culturali, economiche e sociali) di questa trasformazione che sarebbero utili da indagare e che dovrebbero costituire a mio modesto parere l’interesse specifico di tutti coloro che si interessano in vario modo e a vario titolo alla questione del “mondo fatto immagine”, a maggior ragione dei fotografi che oggi, in questo mondo, rischiano ormai di vedere superficialmente solo immagini-icone, e non piu fatti, persone e cose con una loro ragione, una loro vita e una loro storia.

1 commento:

Unknown ha detto...

“fotografi che oggi, in questo mondo, rischiano ormai di vedere superficialmente solo immagini-icone, e non più fatti, persone e cose con una loro ragione, una loro vita e una loro storia”.

Partirei da quest’ultima riflessione, che condensa, credo, costituendone una sintesi efficace, il pensiero del fotografo del secolo XX. A me pare, oltretutto, che la sensibile diminuzione del tempo di 'gestazione' e la isterica e parossistica 'immediatezza' dello scatto (telefonini, webcam, instagram, ecc.) abbiano conseguenze pesanti sulla dimensione sociale della fotografia.

Mi spiego meglio. La fotografia nella sua dimensione sociale e sociologica, antropologica e storica serve, o dovrebbe servire, a serbare memoria di qualcosa: “Ricordare, fotografare e raccontare hanno in comune l’amore per i casi singoli. Ciò che prelevo andandomene in giro o standomene ferma, sono indizi, tracce che fisso in appunti, schizzi o fotografie cui ancorare la memoria. La fotografia può aiutarmi a calibrare la durata dello sguardo che non deve essere né troppo veloce, come al cinema, né troppo statico come in pittura, ma saper conservare un equilibrio mobile tra un prima e un poi” (A. d’Elia, Fotografia come terapia, 1999).

Questa funzione che definirei primaria della fotografia, è ancora presente? Non mi riferisco ovviamente solo al supporto (analogico o digitale), quanto piuttosto alla ‘struttura’ (termine peraltro improprio) che intendiamo dare allo scatto fotografico. A cosa sono destinati i milioni di scatti che, complici le macchine digitali e la rapidità impressionante di fotogrammi che si riescono al produrre in un secondo, riempiono le nostre flash card? Che fine faranno? Hanno uno scopo preciso che vada oltre la pubblicazione immediata su un social network o la mera condivisione via bluetooth con gli amici?

Pensiamo per esempio alle foto familiari, a quelle che fino a pochi anni fa erano destinate ai vari album di famiglia: “dieci, venti fotografie mi riproducono ogni volta diversa: bambina, neonata, ragazza, giovane, adulta, madre, figlia sorella (…) lego un’immagine all’altra, intreccio fatti, metto insieme ricordi” (A. d’Elia, cit.). A quanto mi risulta nessuno (o quasi) stampa più le foto, destinate a rimanere su CD o DVD in qualche ripiano nascosto della libreria del salotto di casa, senza neppure sapere per quanti anni quel supporto cui abbiamo affidato i nostri ricordi sarà leggibile, prima di perdere irrimediabilmente tutti i nostri scatti.

Ma vi è di più. La velocità e il parossismo non alberga solo in chi compulsivamente scatta e posta, ma anche in chi, fruitore dell’opera, vede, commenta e clicca. Nella sua fondamentale opera sulla fotografia Barthes osservava: “Se una foto mi piace, se mi turba, io vi indugio sopra. Che cosa faccio per tutto il tempo che me ne sto davanti a lei? La guardo, la scruto, come se volessi saperne di più sulla cosa o sulla persona che essa ritrae” (R. Barthes, La camera chiara, 1980). Oggi abbiamo il tempo, la voglia, la possibilità di osservare con questa consapevolezza e questa ‘rilassatezza’ uno scatto fotografico?

Personalmente ritengo che l’autentico sguardo fotografico sia qualcosa di più del guardare brandelli di realtà attraverso uno smartphone; che per raccontare la realtà, almeno per come ci appare, non sia sufficiente condividere su youtube un clip amatoriale di qualche minuto; che non ci si debba accontentare di immagini-icone, ma sforzarsi di aver a che fare con “fatti, persone e cose con una loro ragione, una loro vita e una loro storia”. Per dirla con Wenders, “Ogni foto è una rievocazione della nostra mortalità. Ogni foto tratta della vita e della morte. Ogni foto ha un’aura di sacralità. Ogni foto è più dello sguardo di un uomo, è superiore alle capacità del suo fotografo. Ogni foto è anche un aspetto della creazione al di fuori del tempo, da una visuale divina” (W. Wenders, Una volta, 1993.)