giovedì 9 dicembre 2010

This is not a fiction: ancora uno "strappo nel cielo di carta"


ph Sandro Bini - Box - Sett 2008

Una della maggiori tendenze della fotografia contemporanea è costituita senz’altro dalla Fiction Photography, un tipo di fotografia che mette in scena i propri corpi e i propri scenari per riflettere sul ruolo dell’immagine e sul suo rapporto con la realtà nella cultura e nella società postmoderne. La tendenza, che appartiene al dna del medium fotografico, risale, a partire dai suoi albori (basti pensare all’autoritratto in figura di annegato di Hyppolite Bayard) tutta la sua storia: dal pittorialismo, al modernismo, dal surrealismo alla fotografia di moda, fino alla fiction e staged photography contemporanee. Ma non è mia intenzione ripercorrere una storia di questa linea della cultura fotografica, quanto riflettere piuttosto sul concetto di realtà che si da come rappresentazione, già caro ad alcuni celebri fotografi di ispirazione surrealista (Kertesz, Cartier Bresson e altri) che molti fotografi hanno e sembrano consapevolmente abbracciare. L’otturatore come sipario aperto sullo spettacolo di una realtà contemporanea che, almeno in gran parte del mondo occidentale e non solo, è per molti versi già sceneggiata, già trasformata in “società dello spettacolo”, senza il bisogno di doverla rimettere in scena. Ecco allora che il lavoro del fotografo può somigliare a quello “strappo nel cielo di carta” che nel Teatro di Pirandello rivelava il gioco della finzione e la consapevolezza di farne parte integrante, in maniera lucida e consapevolmente critica. Si tratta dunque di una nuova forma di “fotorealismo”? Rimandando ad un mio post precedente (Il "rumore del reale": il fotorealismo nell'epoca del digitale), questa volta l’analisi verte sui contenuti. Ai commentatori il compito di approfondire e aprire la discussione.

mercoledì 27 ottobre 2010

Il mestiere della scelta: il fotografo ovvero il "selezionatore"

ph Sandro Bini, Senza Titolo, Sett 2010
Dopo più di dieci anni di onesta carriera come fotografo e docente di fotografia, mi sono convinto che il lavoro del fotografo non sia semplicemente quello di fare fotografie ma soprattuto quello di scegliere e di sceglierle: “il mestiere della scelta”. Già provare a diventare fotografi è una strana scelta per la  sua problematica collocazione sociale, economica, culturale nel panorama contemporaneo. Ma tutto nel lavoro di un fotografo è esercizio e facoltà di scelta. Si sceglie perché, cosa, quando e dove fotografare (ovvero le motivazioni, i temi, i soggetti, i tempi e il luoghi del proprio fare immagini), e l’atto fotografico in se stesso, per citare Dubois, è sempre una drastica selezione e trasposizione dal continum spaziale e temporale del reale. Dallo spazio (potenzialmente infinito) si seleziona un rettangolo, un quadrato, una porzione di campo e la si ritaglia con il mirino; dal flusso temporale continuo congeliamo un preciso istante, “un momento decisivo” e depositiamo il tutto su una superficie, bidimensionale (muta e immobile) di carta o luminosa (schermo). Ma anche dal punto di vista tecnico (dalla scelta della macchina fotografica, alla lunghezza focale dell’obbiettivo, dai tempi ai diaframmi, dal colore al bn, dall’analogico al digitale, dal bilanciamento del bianco, all’jpg o al raw) tutto in fotografia è un esercizio di selezione e di scelta fra opzioni già programmate (Flusser). Tanto che la libertà fotografica non è l’mmaginazione al potere, ma una sorta di libertà controllata, di opzioni fra possibilità date e reali, e questo – attenzione - anche per quanto riguarda la postproduzione: scelta del programma e scelta fra una gamma di strumenti preconfezionati per ottenere un determinato “effetto”. E che dire poi del cosiddetto editing? Che cos’è l’editing se non la scelta, la selezione per l’impaginazione delle fotografie realizzate? Bene tutto questo solo per dire che fotografando esercitiamo le nostre “capacità politiche”, che sono sempre capacità di selezione e di scelta fra opzioni date e reali. Breve e superficiale come sempre. Ai commentatori il compito di riflettere e approfondire.

domenica 3 ottobre 2010

Il "rumore del reale": il fotorealismo nell'epoca del digitale

                    
Sandro Bini, Vipernight (2008)
Non occorrerebbe più scomodare Walker Evans e il suo “stile documentario” per ribadire che il “realismo” in fotografia non è che una convenzione: una questione di stile e di linguaggio. Più interessante sarebbe indagare come si è evoluto il concetto di realismo in fotografia e cosa sia oggi il fotorealismo. Limitandosi al '900 negli anni 30 alcuni fotografi americani  ed europei (fra cui Walker Evans, August Sander) definirono realistico un linguaggio diretto, oggettivo, formale e austero (frontalità, centralità del soggetto, posa, impeccabile resa tecnica e formale) che desse piena "trasparenza" e "oggettività" ai propri soggetti; uno stile, voluto e ricercato, da contrapporre alle estetiche pittorialiste e moderniste allora in auge. A partire dalla seconda metà degli anni 50 e poi a seguire nei due decenni successivi i nuovi street photographer, soprattutto americani (Frank, Winogrand, Friedlander), portarono il fotorealismo nell’ambito della performance fenemenologica  e della istintività del gesto, del comportamento e del linguaggio, indirizzandolo nell’ambito del soggettivamente esperibile e del formalmente destrutturato. Ma oggi in epoca digitale cos’è il fotorealismo? Limitandosi volutamente ed esclusivamente alla “superficie dell’immagine”, senza indagarne i contenuti, cosa appare formalmente più fotorealistica oggi? Un’immagine tecnicamente impeccabile, nitida e patinata o una mossa, leggermente sfuocata, magari desaturata e piena di “rumore”? Insomma se in fotografia anche il realismo è una convenzione, cosa più ci comunica oggi il “rumore del reale”? Le immagini low-fi dei sistemi di videosorveglianza, dei cellulari e delle webcam, o quelle patinate e supernitide, non solo di tanta fotografia di moda e pubblicità, ma anche di reportage?  Mi scuso, anticipando probabili critiche, per la sintesi un po’ semplicistica e la parzialità con cui affranto un argomento così vasto e concettualmente problematico, ma la soglia di attenzione sulle pagine dei Blog come si sa è davvero molto bassa, e ciò che mi propongo davvero in queste pagine è soprattutto buttare sassolini nello stagno: stimolare la discussione e la riflessone e perchè no la critica, in modo da approfondire i temi e moltiplicare le prospettive di analisi, attraverso i vostri apprezzati commenti e contributi.

lunedì 30 agosto 2010

Ti è piaciuta la mostra? Qualche foto si mi è piaciuta molto…


Ti è piaciuto il film? Si qualche scena mi è piacuta molto.... Sembrerebbe una risposta assurda. Eppure perchè quando chiediamo un giudizio su un progetto, un libro o una mostra fotografica di un autore spesso la risposta dei non addetti ai lavori e non solo è spesso "alcune foto mi sono piacute". Si ok, ma del progetto, della mostra del libro in generale che ne pensi? E’ ovvio infatti che qualche fotografia o qualche scena di un film ci colpiscano più di altre, ma il giudizio dovrebbe essere generale, anche perché è tutto il tessuto narrativo di un libro o di un film a valorizzare le singole parti. E’ un mal costume che mi irrita molto e che mi sforzo nella mia piccola cerchia di studenti di debellare cercando di andare al di là della lettura della singola immagine e valutando il progetto in tutto il suo testo e possibilmente contesto. Ci sarebbe forse bisogno di scrivere un saggio su come si visitano le mostre fotografiche (e non solo) o come si legge un libro di fotografia, oppure far capire che come in musica si è passati dal singolo 45 giri all’ LP anche il mondo della fotografia è fatto di progetti, di mostre e di libri e non solo singole immagini o di compilation antologiche dei “pezzi” più belli. A parte che anche le compilation come ben sanno i dj e come sciveva Nick Hornby in High Fidelity (1995) possono essere fatte con amore e con gusto, essere piccole o grandi opere d’arte.

In allegato video tratto dal film di Stephen Fears - High Fidelity (2000) dal libro di Nick Hornby (1995)





martedì 13 aprile 2010

Dalla previsualizzaizone alla postvisualizzazione: piccola riflessione sul passaggio dall’analogico al digitale


                                           Sandro Bini, Screen (Settembre 2008)

Un illustre e direi eroica scuola di pensiero fotografico di epoca analogica sosteneva che il fotografo dovesse già in fase di ripresa previsualizzare la fotografia stampata ed operare in modo che tutta la processualità tecnica dall'esposizione allo sviluppo del negativo fino alla stampa seguisse questa prima intuizione o meglio visione fotografica (Weston, Adams e affini). Accennato che ancora in piena era analogica la tesi era stata più volte discussa quando non palesemente criticata in termini anche ideologici (come ad esempio da un street photographer come Garry Winogrand, che diceva candidamente di fotografare un oggetto per verificare che aspetto avesse in fotografia), con l’avvento del digitale e del file raw pare decisamente se non da rivedere quanto meno da “spostare in avanti” nel processo di realizzazione dell’immagine. La previsualizzazione infatti non è scomparsa ma è solo rimandata, con più calma, al momento in cui apriamo il file raw nel nostro programma di gestione, prima ancora di “svilupparlo”, col vantaggio di poterla applicare ad ogni tipo di fotografia e non solo a quella di posa. E’ in quel momento infatti, piuttosto che in fase di ripresa, che col digitale la capacità critica, l’esperienza e la cultura visiva (nonchè la capacità di gestione dei software di fotoritocco dal parte del fotografo) sono in grado di far prefigurare possibili e alternativi risultati, ed è in quel momento di fatto e non prima che oggi viene trasferita la fase di previsualizzazione cui deve seguire una adeguata e sapiente postproduzione del file che la possa compiutamente realizzare. L’intuizione modernista e romantica della previsualizzazione in fase di ripresa (di era analogica) lascia insomma il campo alla postvisualizzazione postmoderna del file dell’era digitale.

mercoledì 3 febbraio 2010

Io lo so già usare... Piccola riflessione sull’utilizzo dei programmi di postproduzione digitale

ph. Sandro Bini, Misura di un'Assenza (Firenze - Giardini di Boboli, Gennaio 2010)

La presunzione impera. L’umiltà latita, con sua cugina la pazienza. Photoshop? Lightroom? Camera Raw? Io li so già usare! Basta aver aperto una decina di volta uno dei programmi e aver mosso tre cursori che eccoci diventati esperti in postproduzione digitale. Del resto con la camera oscura tradizionale non era molto diverso: bastava essere entrati un paio di volte un laboratorio per sentirsi dire: io so stampare! L’apprendistato pare in declino per non dire dello studio e della sperimentazione sensata. Ma alla base devo registrare, soprattutto e purtroppo, una mancanza di cultura visiva in cui tutto il resto naufraga. Con i programmi di fotoritocco molti ripetono e sopratutto vogliono la “pappa scodellata”, facili ricette da applicare ai vari tipi di fotografia. Imperano i tutorials e i loro greggi on line. Il sottoscritto nella sua modesta esperienza di docente con Deaphoto pratica e consiglia “formule didattiche di resistenza”. Questa la semplificata: “io vi spiego al meglio le specificità tecniche e le funzionalità degli strumenti di fotoritocco dei vari programmi. Quello che poi ci fate sono fatti vostri…” Dichiarazione deludente e frustrante per il povero studente in cerca di soluzioni rapide e per un rapido successo. Ma il buon povero Maestro insiste credendo che ognuno debba trovare da se il proprio stile, anche in postproduzione, a seconda dei vari progetti e le diverse immagini e, soprattutto, il modo migliore per utilizzare i sofisticati strumenti messi a disposizione dalla tecnologia digitale che possano valorizzare un lavoro in partenza già interessante. Certo la strada è più lunga e faticosa, implica ore trascorse incollati a un monitor a sperimentare, e soprattutto, nello stesso tempo, massicce iniezioni di cultura visiva. Gli “apparati”, come direbbe Vilem Flusser*, marchiano l’immagine tanto che un occhio esperto potrebbe riconoscere la fotocamera e il software di fotoritocco utilizzato per ritoccare un’immagine… ecco cerchiamo di trarlo in inganno il più possibile! Cerchiamo di trovare il nostro stile anche in questo ambito sempre più importante della pratica fotografica, “piegando” gli apparati ai nostri modesti fini.

*Vilem Flusser,
Per una filosofia della fotografia , Milano, Mondadori 2006.