giovedì 26 novembre 2009

Sughero o punta dell’iceberg: il peso specifico delle fotografie

La fotografia è troppo facile, troppo veloce, chiunque con le macchine digitali automatiche di oggi è in grado di farla! Verissimo! Ma che peso specifico hanno le fotografie di chi non ha cultura, visione, di chi -come cantava Ivano Fossati- “non ha giudizio”. Cosa c’è dietro una fotografia se non la storia o la non-storia di uno sguardo? Ecco l’immagine fotografica: la punta dell’iceberg, o un sughero galleggiante? La superficie misteriosa del mare o una semplice pozzanghera? E poi parafrasando Lucio Dalla quant’è profondo il mare? Qual’è il valore o il peso specifico di una fotografia? Secondo il modesto parere di chi scrive il peso specifico dipende in primo luogo da chi questa immagine l’ha fatta, poi da cosa rappresenta, dove, come e perchè è stata fatta, e poi da strane favorevoli, misteriose circostanze che ne detrminano la sua storia successiva e dai rapporti che questa immagine tesse e tesserà nel tempo con tutte le altre immagini dello stesso autore e degli altri fotografi: contemporanei, precedenti, successivi. Diceva Luigi Ghirri che le nuove fotografie cambiano il modo di vedere quelle vecchie. Verissimo! Mentre altri hanno notato come un fotografo in genere viene alla fine ricordato per poche immagini, che sono poi quelle veramente importanti. In ogni caso una volta nata una fotografia ha una sua storia e i propri itinerari, troppo spesso indipendenti da quelli del suo autore... Giusto così! Impariamo quindi nel valutare le fotografie a “sentire”, al di là del gusto personale e delle appartenenze culturali, il loro peso specifico. Ma chi può realmente farlo con la dovuta competenza? Diceva lo storico e critico della fotografia Diego Mormorio, alla recente presentazione di un suo libro rispondendo ad un giovane che gli domandava un po' ingenuamente come si fa a giudicare quando una fotografia sia bella, che per giudicare la fotografia bisogna innanzi tutto averla a lungo frequentata e praticata. Sono assolutamente d’accordo con lui: la capacità giudizio ha bisogno non di facili ricette, ma di cultura, competenza, sensibilità maturate lentamente nel tempo. Solo in questo modo uno sguardo educato, consapevole e sensibile è in grado di valutare correttamente una fotografia e il suo autore, di sentire se si tratta di un iceberg o di un sughero galleggiante sulla superfice dell'acqua, di sondare la profondità del mare o annusare il tanfo di una pozzanghera sporca. In apertura di questo articolo: Sandro Bini, Senza titolo (1996).

domenica 25 ottobre 2009

Alla faccia del Ritratto: relazioni mediate e teatrali intimità


Se la fotografia è, come penso, strumento di relazione e conoscenza, credo che il Ritratto ne costituisca in un certo senso la sua essenza. Del resto una della sue prime applicazioni (anche commerciali) nella sua Storia è legata alla nascita (o meglio sarebbe dire alla trasformazione) degli Atelier fotografici di Ritratto. Con il ritratto al Dagherrotipo la borghesia (industriale e commerciale) degli anni ‘40 dell’800 può celebrarsi e autorappresentarsi, con quello al collodio degli anni ‘50-‘80, sempre dell’800, tutti o quasi possono avere il loro ritratto da esporre in cornice nel “salotto buono”. Col Novecento (le pellicole alla gelatina d’argento e gli apparecchi portatili) sempre più persone possono fotografare i loro cari e costruire i propri album di ricordi. Oggi, che con il digitale tutti sono fotografi e gli album sono spesso pubblicati sui Blog o nei Social Network, il ritratto fotografico continua ancora a celebrare e a rinsaldare coesione familiare e identità personale in un processo di continua democratizzazione della rappresentatività per immagine. Ma il ritratto fa ancora di più, sostituisce l’assente, celebra il defunto, stimola il desiderio di amore, gloria, eternità. Che si costruisca nella maschera della posa, o si improvvisi nel gesto dell’istantanea, è anche capace di giocare o trasformare la propria e l’altrui identità. Finzione e rivelazione: anche il Ritratto come la fotografia tutta, pare oscillare fra questi due poli. E se la psicologia gli appartiene (con le dinamiche di proiezione e interpretazione che nascono spontaneamente nella triangolazione fotografo-modello-fruitore) gli appartiene anche la sociologia, l’antropologia e perché no l’arte, soprattutto quella popolare degli artisti di strada (ah il misterioso fascino dei fotografi ambulanti!). Ecco perché i grandi ritrattisti come diceva Barthes sono grandi etnografi. Perché sono anche psicologi, sociologi, e “saltimbanchi”... Il fotografo ritrattista infatti si relaziona e si confronta non solo con una o più persone, ma con una società, una cultura visiva e un immaginario popolare e con tutti i modelli (pittorici e fotografici, filmici) che ha conosciuto e ha imparato ad utilizzare. Per questo oltre alla tecnica è importante la cultura visiva (la Storia della Fotografia, il Cinema, tutta l'Arte Visiva). Chi ha visto di più vede meglio! Almeno questo è quello che ho imparato dai Maestri e anche dalla mia esperienza di Docente con Deaphoto al Corso di Ritratto in Studio. Come diceva Bacon (grande pittore ritrattista) la tela all’inizio non è mai bianca. E anche la pellicola o il ccd a guardar bene potrebbero non esserlo. Buoni ritratti a tutti!

Il mio ritratto a commento di questo Articolo è tratto dalla Serie Photobox /Il coraggio di giocare con la propria identità. Un progetto fotografico a cura di Sandro Bini e Francesca Ronconi, realizzato dai Fotografi del Deaphoto Staff, nell'Ottobre 2009, nell'ambito del Progetto Artistico Private Flat #5.

lunedì 14 settembre 2009

Settembre: pentole e buoni propositi fotografici

Sandro Bini > Opendoorrivisited / Omaggio a H. Fox Talbot (Novembre 2008)

Con Settembre, la fine delle vacanze e l’inizio di una nuova stagione lavorativa o di studio, è tempo di buoni propositi, che poi spesso sappiamo dove vanno a finire… Fra questi le iscrizioni in palestra, per rimanere o rimettersi in forma, o l’iscrizione a qualche Corso Serale per sopravvivere alla noia delle lunghe sere invernali. Qualcuno penserà anche a un Corso di Fotografia. Perché no? Chi non ha una fotocamera digitale oggidì? Io con la mia attività di Docente ovviamente ne incontro tanti, pieni di buoni propositi, e di attrezzature. Ma perché fare un Corso di fotografia? Per gli aspetti tecnici? Per il fascino delle attrezzature? Per socializzare? O per cosa altro… Io direi soprattutto per imparare a vedere e a relazionarsi, per imparare a raccontare e a raccontarsi per immagini, e per usare la fotografia come strumento di cultura e conoscenza umana. Sono tre i consigli per i neofiti di questa “disciplina”: tanta pazienza, lavoro e molta umiltà. La fotografia vera si comincia a conoscere non in qualche mese, ma in qualche anno, ed è solo frequentandola a lungo che si inizia ad orizzontarsi e a rendersi conto di che razza di potenziale grimaldello culturale e sociale possa essere una fotocamera, capace di aprire panorami culturali (dalla filosofia alla psicologia, dalla antropologia alla sociologia, dalla storia dell’arte al cinema, alla letteratura ecc.) e in grado tessere relazioni sociali fonte di crescita umana. La tecnica è importante ma si impara velocemente, basta applicarsi e rimanere aggiornati, quello per cui occorre tempo, metodo e costanza è saper vedere fotograficamente, farsi una cultura visiva, elaborare un proprio stile originale e imparare a relazionarsi col mondo e con gli altri impugnando una fotocamera. E’ quello che tentiamo di far capire con Deaphoto : stimolare la passione per la fotografia e ridimensionare quella per le macchine fotografiche, stornare l’attenzione dalle novità tecnologiche a quelle del linguaggio e della cultura fotografica, dai problemi del pixel a quelli della narrazione e della rappresentazione visiva, dalle tematiche della fotografia come oggetto d’arte a quelle della fotografia come metafora delle dinamiche sociali e culturali in atto. Per chiudere a mo’ di morale una piccola storia. Una sera un fotografo viene invitato a cena, la padrona di casa dopo aver visto le sue fotografie esclama: “Belle queste fotografie! Deve avere una gran macchina fotografica!”. Il fotografo rimane in silenzio e abbozza, ma al momento di salutarla a fine serata si congeda da lei in questo modo: “Grazie Signora. Buonissima cena! Deve avere sicuramente delle bellissime pentole”. Alla prossima!

martedì 21 luglio 2009

Tutti al mare: strategie ironico-negative per sfuggire allo stereotipo della foto di vacanza



Con le ferie estive tutti rispolveriamo le nostre attrezzature fotografiche. E tutti realizziamo le fotografie delle nostre vacanze. Il problema dello stereotipo formale della fotografia di vacanza (per altro verso antropologicamente assai interessante) sta nel fatto stesso di essere in vacanza ed è quasi praticamente impossibile sfuggirvi, anche per i fotografi culturalmente più preparati. Mi spiego meglio: indossati gli abiti del vacanziere europeo modelliamo su quella esperienza la nostra visione, con pochissime vie di scampo, al di là delle capacità fotografiche di ciascuno. Ho vissuto a più volte sulla mia pelle questo tipo di strees e delusione al ritorno da un viaggio e vi parlo quindi con cognizione di causa e ho tentato nel tempo differenti strategie di fuga. La migliore? Non andare in vacanza e fotografare le città semivuote… Ma a parte gli scherzi, per non essere così drastici e autolesionisti (un po' di meritato riposo perbacco!), ho provato anche un tirocinio tutto in negativo elaborando alcune strategie operative che vorrei raccontarvi . La prima: non pensare di essere in vacanza ma in viaggio fotografico, insomma come se vi fosse assegnato un incarico da qualche Agenzia, e strutturare quindi la vacanza come fosse un lavoro su commissione. Ma se è un lavoro allora che vacanza è?! E poi, si sa, le bugie hanno le gambe corte e si finisce ugualmente a fotografare i tramonti sul mare e la fidanzata davanti al monumento di turno. Seconda strategia, al limite dello stoicismo: cercare programmaticamente di non fare gli scatti che abitualmente da turisti saremmo tentati di fare. Mica facile resistere! E dove sta il limite? E poi in che modo? Ho tentato con due diverse tattiche. La prima, cercando di costruire un diario visivo molto intimo e personale trascurando in maniera metodica tutto il“fotograficamente corretto” e il turisticamente passabile, (sul modello di “American Surfaces” di Stephen Shore ). Ma chi non amasse fotografare cessi e tavoli sporchi di autogrill e dormire in alberghi di quart’ordine? Rimane la tattica alternativa: fotografare gli altri turisti, coloro dalla cui visione stereotipata vorremmo allontanarci, sul modello del mitico Martin Parr, che in “Small World” (il suo libro dedicato al Turismo) arriva addirittura a costruire consapevolmente immagini streotipate sul modello turistico e con gli “errori” tecnici e compositivi tipici della fotografia familiare. Ma siete proprio sicuri di volerlo fare? Rischierete psicologicamente di brutto vedendo “da fuori” tutto ciò di cui fate parte! E tornando a casa forse non sareste più gli stessi. Mah! L’ultima terza e risolutiva opzione è la più dolorosa per i fanatici dell’obbiettivo: lasciate la vostra macchina fotografica a casa e spassatevela! Tanto vi rimane ancora quella sul cellulare per cedere alle lusinghe turistico-fotografiche con minori sensi di colpa (pare infatti che quest’ultimo sia direttamente proporzionale alla quantità di tecnologia utlizzata per fotografare le proprie vacanze e anche su questo ci sarebbe da indagare...). Le due immagini inedite a commento di questo post sono estratte dalle cartelle delle mie ultime due vacanze estive in Sicilia nel 2007 e in Scozia nel 2008 e vogliono essere un contributo visivo alle strategie ironiche elencate. Buone Vacanze a tutti!

domenica 21 giugno 2009

Darwinismo fotografico: eclettismo stilistico e percorsi obbligati

Nell’evoluzione stilistica di molti fotografi contemporanei che si interessano del territorio e del sociale noto una significativa costante che voglio chiamare dal nome di un suo illustre esponente “costante Meyerowitz”. Si parte “leggeri” equipaggiati di Reflex o Leica e si finisce dietro al panno nero del banco ottico. Del resto in altri settori fotografici di ricerca e fashion il passaggio obbligato pare essere quello dalla fotografia al video. Ma su questo tema, altrettanto interessante, indagheremo magari un’altra volta. Restando al tema in oggetto in questo intervento, mi sono spesso interrogato e ho chiesto ai colleghi i motivi di questo fatale passaggio. Alcuni mi hanno risposto in maniera ironica ma sincera che forse si tratta solo di motivi di età (“effetto età”), non si hanno più le motivazioni e le energie per rincorrere da vicino i propri soggetti, meglio osservarli da lontano, e da una fotografia d’azione dietro il piccolo mirino di una handcamera e ci si ritira dietro il grande vetro smerigliato del banco ottico sposando una visione contemplativa forse più congeniale ad una età più matura e saggia. Questa motivazione ovviamente può essere più che valida e rispettabile, ma c’è un tarlo che mi rode e che mi induce scavare. Qualcuno potrebbe parlare di “moda”, io preferisco chiamarlo “effetto Gursky ”. Si sa infatti che un’altra costante dello sviluppo nella carriera di un fotografo di successo nel panorama fotografico contemporaneo sia quello di partire dalle Agenzie e dalla Riviste per approdare alle Gallerie d’Arte (percorso più che invidiabile e rispettabile) ma si sa che bene o male, almeno ad oggi, queste ultime prediligono per motivi di mercato, sull’esempio del grande fotografo tedesco (almeno per questo tipo di fotografia), la supernitidezza e il Grande Formato di stampa. Che sia questa un’altra motivazione del fatale passaggio? Ma voglio andare oltre e scavare ancora più a fondo. C’è, secondo il modesto parere di chi scrive, pure un'altra questione importante che chiamerò “effetto nostalgia delle origini”: ovvero la tendenza, nella carriera di molti fotografi, anche importanti, all’archeologia dello sguardo fotografico: al recupero della visione e se vogliamo della attrezzatura delle origini (anche se ormai infatti i banchi ottici di oggi sono ben equipaggiati da costosi dorsi digitali, il funzionamento fondamentale della view-camera è ancora infatti sostanzialmente quello di una volta). Insomma il motivo letterario del ritorno sembra valere anche per la Fotografia e per i fotografi. Questi sostanzialmente mi paiono insomma i tre motivi principali di questa sorta di passaggio stilistico obbligato: "effetto età","effetto Gursky", "effetto nostalgia delle origini". Ma è possibile sfuggire dalla costante evolutiva di questo darwinismo fotografico? Mantenere un eclettismo stilistico e un approccio sperimentale anche in età matura? Si può passare con disinvoltura dal Banco alla Leica, dalla street al paesaggio, al rtiratto e dal bianconero al colore? Penso, ma soprattutto mi auguro di si, nella speranza che “il modello Walker Evans” (che passava tranquillamente dal banco ottico alla macchina nascosta sotto il cappotto nella metro di New York e che ultrasettantenne impazziva per la Polaroid a colori) possa ancor oggi funzionare come funziona ad esempio (al di là della bontà dei risultati o meno) anche nel mio modesto lavoro di fotografo, che al rischio della schizofrenia stilistica e tecnica passa con disinvoltura da un tipo di fotografia ad un altro, e da una apparecchiatura ad un altra e conosce evoluzioni stilistiche molto eclettiche e ben poco lineari. Ma forse questo è solo un modo per non annoiarsi e per sentirsi ancora giovani…. E allora più che agli storici o i critici della fotografia meglio sarebbe rivolgersi a un buon psicologo.

Le mie tre immagini a commento di questo post sono tratte da:
"I Confini della Città" (dal 2001) www.deaphoto.it/biniconfini1.htm
"Nightportraits" (2007) www.deaphoto.it/nightportraits.htm
"Streetflo" (2009) www.deaphoto.it/streetflo.htm

venerdì 22 maggio 2009

Quelli della notte: il fascino surreale della street notturna

Il primo fu Brassaï con il suo celebre “Paris de nuit” nel 1932, poi Bill Brandt con “A night in London” nel 1938, che con con i limiti tecnici dell’epoca riuscirono a raccontare in maniera poetica la nightlife di due grandi metropoli come Parigi e Londra. Ancor oggi questi due grandi libri costituiscono i modelli del “genere” nell’ambito di una poetica surrealista che influenza ancor oggi tanta fotografia contemporanea. Il racconto notturno è passato poi in anni molto più recenti, sulla via inziata negli anni '40 da Weegee e del suo "The Naked City" (1948), agli interni alternativi e underground di Nan Goldin (’80) e Wolfgang Tillmans (’90) con una fotografia “dura”, diaristica, generazionale di forte impatto emotivo e sociale tutta coinvolta in una dimensione privata. Ma la notte in città continua a vivere anche fuori, nelle strade: quelle vuote e desolate delle periferie urbane e quelle piene di vita e di folla delle notti estive intorno ai locali del centro. Personalmente il pensiero di fotografare la città di notte con un approccio "street", si lega ancora una volta alla mia esperienza professionale con Deaphoto, grazie ai Mondiali di calcio del 2006, che mi hanno suggerito l’idea di organizzare, proprio in quei giorni, un Corso di Night Street Photography che raccontasse la nightlife intorno ai locali estivi ed ai maxischermi dove si radunava la gente per seguire le partite. E' stato quello per me forse il modo migliore affinché la tradizione street tornasse a confrontarsi con uno scenario notturno non troppo indagato (escluso gli illustri esempi prima citati). Il percorso è poi continuato, negli anni successivi, concentrandosi sempre sugli itinerari estivi della movida fiorentina, ma lasciando piena libertà agli studenti nella costruzione del proprio racconto notturno. In questa esperienza - come docente e come fotografo - ho potuto notare, come al di là di alcuni denominatori comuni nell’approccio street, sitli e tecniche si adattino al nuovo scenario, lasciando ampi margini di possibilità, tecniche ,creative ed interpretative, in cui movimento, cromatismo, giochi di luce, contribuiscono alla definizione di una visione personale indicativa del proprio modo di vivere e sentire la notte in città. Le mie due immagini che accompagnano questo post sono due inediti realizzati durante le Esercitazioni del Corso di Nigth Street Photography 2007-2008. La Galleria Immagini della Mostra finale del Corso può essere visionata al seguente link: Nightlife in Florence 3 .

venerdì 24 aprile 2009

Solo per iniziati: il battesimo dell’iposolfito di sodio


Mi resta difficile immaginare come tanti giovani nati negli anni 90 possono non aver mai adoperato una pellicola, eppure penso che ormai oggi sia giusto e normale. Ancora più strano mi sembra che tanti giovani fotografi anche professionisti, magari espertissimi di “camera chiara” (photoshop & c) non siano mai entrati in una Camera Oscura. Che strana razza di fotografi saranno senza il “battesimo dell’iposolfito” e la puzza dei chimici nelle dita? Tutto ciò ovviamente non vuol essere un giudizio di valore ne tanto meno una nostalgia reazionaria. Ma solo un invito, per chi possa averne l’opportunità (ancora qualche “fanatico” come il sottoscritto è disponibile a insegnare i “segreti” della darkroom) a provare il brivido dell’immagine bianconero che emerge nella vaschetta del rivelatore. Non tanto per motivi professionali (ormai chi sviluppa e stampa da solo il bianconero appartiene a una razza che il wwf farebbe bene a proteggere) ma per motivi oserei dire filosofici e iniziatici. Fino a non molto tempo fa infatti, molto spesso, la differenza non solo tecnica fra i fotografi la faceva l’esperienza della camera oscura (come oggi del resto la fa la conoscenza dei programmi di fotoritocco) e il fatto di sviluppare e stampare i propri negativi rappresentava un discrimine di “casta” e un privilegio indiscusso. Penso insomma, per farla breve, che l’iniziazione alla Camera Oscura tradizionale possa costituire tutt’oggi un’esperienza emotiva e formativa fondamentale per un fotografo, un salutare e fondamentale ritorno alle origini della fotografia, nella sua fase chimico-alchemica, una sorta di iniziazione al mistero della luce che si fa immagine che mi sembra ancora essenziale per chi vuol fare oggi fotografia. Nei suoi approcci fotorealistici infatti la postproduzione digitale con i software di fotoritocco altro non fa che riprodurre sul monitor le tecniche della darkroom classica (in maniera assolutamente piu veloce e accurata, in piena luce e senza la puzza degli “acidi”) ma lasciatemi dire che il "battesimo dell’iposolfito" lascia un odore piu forte sia sulla pelle che nell’anima. Provare per credere! L'immagine a commento di questo post è tratta dalla mia serie "Lo Schermo dell' Ombra" (1995-1998). Stampa alla gelatina d'argento cm 30 x40. Una selezione della serie al seguente link.

mercoledì 18 marzo 2009

Notturni urbani: il brivido lungo e misterioso della notte in città


Risale al 2004, a cinque anni fa quindi, la mia prima esperienza di docenza con Deaphoto al Corso di Fotografia Notturna del Territorio Urbano. L’esperienza didattica, che nasceva da un naturale sviluppo del mio studio e del mio progetto fotografico sulla città, trovava illustri modelli nella storia della fotografia, da Stieglitz a Brassai, e nella più recente scuola italiana di Paesaggio degli anni 80-90 (Luigi Ghirri, Olivo Barbieri ecc). Un passaggio quindi logico dall’analisi architettonica e sociale delle configurazioni urbane, riprese in piena luce naturale, alle evocative gerarchie luminose della fotografia notturna, che trasfigurano il tempo e lo spazio nella dimensione poetica ed onirica di una visione incantata. L’esperienza della notte in città ha regalato quindi, a me a miei studenti e collaboratori, stimoli diversi ed emozioni cognitive inaspettate. La lenta e rituale messa a punto della macchina fotografica sul cavalletto, i lunghissimi tempi di esposizione, lo studio delle fonti di luce artificiale, gli spazi bui e luminosi, deserti e silenziosi della notte urbana, ci hanno avvicinato ad una esperienza di contemplazione straniata e straniante, in una dimensione spazio-temporale e luminosa diversa e privilegiata, vicina a quella del sogno o della fiaba, in cui gli stessi scenari del quotidiano mutano di senso per aprirsi al mistero abitato della notte e a rimandi culturali sia visivi (fotografia, cinema, video) che letterari. I “Notturni urbani” sono dunque il frutto di questa esperienza-vissuta di contemplazione e transito, di visione e lettura, ma anche il nome che vorrei affettuosamente dare tutti coloro che, fotografi o meno, non hanno saputo, non sanno o non sapranno resistere al richiamo notturno, al brivido lungo e misterioso della notte in città.

Le due mie fotografie a commento di questo Post fanno parte del Progetto Deaphoto Staff Notturni Urbani , un work in progress iniziato nel 2004 nell'ambito didattico del Corso di Fotografia Notturna del Territorio Urbano; un progetto che mira ad una analisi territoriale complessiva, su zone differenziate, dell'Area Metropolitana Fiorentina, con locations che sono di volta in volta individuate, in base a criteri poetico-topografici: una geografia urbana che privilegia, con la visione notturna, le architetture di luce e le gerarchie sociali degli spazi (dai transiti dei nodi nevralgici agli aspetti più malinconici e desolanti della città diffusa).

lunedì 2 marzo 2009

Nostalgia dell’analogico e nuove forme di ibridazione tecnica e concettuale


Dopo la prima ondata di entusiasmo o di dissenso per la rapida diffusione del digitale nel mercato fotografico, adesso, che la situazione si è un po’ stabilizzata, con un ampio e diffuso consenso al pixel, registriamo, a livello nemmeno troppo elitario, una certa nostalgia per l’analogico. E non parlo, almeno nei migliori dei casi, di nostalgici reazionari fedeli ad oltranza all’alogenuro d’argento. Ma di fotografi come me, che allevati al duro e costoso tirocinio della pellicola, non hanno traumatizzato troppo il passaggio al digitale (di cui hanno invece imparato a conoscerne indubitabili pregi e vantaggi), ma si trovano a muoversi, anche per motivi anagrafici e di archivio, fra le due tecnologie, a seconda dei vari progetti che portano avanti. La situazione mi pare molto interessante e abbastanza simile a quello che è successo e sta succedendo nel panorama musicale. In cui la digitalizzazione del suono (avvenuta con ampio anticipo rispetto a quella dell’immagine) non ha annullato, almeno nelle ricerche più avanzate, l’utilizzo e la produzione di strumenti e procedure di registrazione analogici, che anzi finiscono per convivere ed ibridarsi in maniera esteticamente interessante nelle produzioni più avanzate (si potrebbero fare decine di esempi). In questo senso credo che ciò che è successo e succede in ambito musicale sia di esempio e conforto per chi teme che la fotografia digitale soppianti rapidamente e del tutto (anche nella produzione e nel mercato) quella analogica, e indichi ai fotografi nuove frontiere nella sperimentazione tecnica e formale, con le ovvie inevitabili conseguenze sull’impianto linguistico e concettuale delle opere. Si potrebbero citare esempi illustri di ibridazione analogico-digitale fra i fotografi contemporanei. Ma visto che scrivo sul mio Blog personale preferisco come sempre presentare la mia esperienza. Nel 2008 con Deaphoto abbiamo partecipato e vinto un Bando di Concorso promosso dal Comune di Firenze dal titolo “Emergenze creative” con un progetto fotografico collettivo dal titolo Private Florence / Geografie Personali. Si trattava di tracciare una geografia della città partendo dalle esperienze vissute dai vari fotografi partecipanti al Progetto. Per mio conto ho voluto raccontare due luoghi della mia infanzia. E per farlo ho deciso di utilizzare una toy camera a foro stenopeico, acquisendo le immagini con pellicola a colori di medio formato. Ho poi scansionato i negativi, ottimizzato in Photoshop e stampato da file su carta fotografica tradizionale. Due delle dodici immagini della serie “Childhood Places” (2008) compaiono a commento visivo di questo post.

domenica 22 febbraio 2009

Guardare lontano: “nostelogio” del campo lungo



In una raccolta di scritti di Wim Wenders di qualche tempo fa (L'atto di vedere 1992) il celebre regista de Il cielo sopra Berlino (1987) prendeva atto di come con la nuova cultura video televisiva si stesse perdendo il gusto tutto cinematografico del campo lungo, dello sguardo lento, dello sguardo lontano. Wenders individuava le motivazioni tecniche di questo declino (la bassa definizione dell’immagine televisiva e digitale rispetto a quella cine-fotografica), e le inevitabili conseguenze estetiche sul linguaggio visivo: il restringimento del campo (con l’imporsi universale della tipica inquadratura televisiva da “talking heads”) e la frammentazione e la velocità dello sguardo (montaggio veloce) a discapito dei tempi lunghi delle panoramiche cinematografiche. Mi pare che a distanza di poco più di un decennio dalla pubblicazone del libro, le valutazioni di Wenders si siano dimostrate profetiche in fotografia con una diffusa scomparsa fra i giovani fotografi (a parte autorevoli sacche di resistenza che non sto a citare) del gusto del campo lungo e della panoramica, e proprio nel momento in cui l’immagine digitale (almeno in fotografia) è in grado di competere se non di superare per definizione quella su pellicola. Come spesso accade sono i fattori sociali e culturali a determinare il cosiddetto stile visivo contemporaneo. Si impone sulle nuove generazioni il gusto visivo frammentario e ravvicinato da videoclip e il melting pop da photoblog. Fenomeni fra l’altro interessantissimi e tutt’altro che da sottovalutare (anzi da studiare) sia socialmente che esteticamente. Ma mi sembrerebbe quanto meno una grave perdita fosse trascurata la potenzialità visiva e narrativa della veduta lenta e panoramica, se e in quanto la miopia postmoderna del guardare-vicino annullasse del tutto l’utopia storica del guardare-lontano. Come spesso capita su queste pagine, riporto la riflessione dal piano teorico all’ambito più concreto dell’esperienza personale di docente, in cui mi trovo a registrare fra i giovani studenti un’ottima propensione all’analisi indiziaria sul dettaglio, veloce e frammentaria (ad esempio nella Street Photography e nel fotodiario), ma una minore capacità di sintesi analitica su visioni panoramiche, più lente e articolate, che pure tentiamo di incoraggiare tramite la visione di modelli esemplari e l’esempio concreto sul campo (Analisi territoriale, Paesaggio). Ad esempio l’idiosincrasia al cavalletto (che aiuta sicuramente per una visione più contemplativa) è piuttosto diffusa fra i giovani studenti di fotografia e sintomatica di ulteriori disagi percettivi nei confronti dello spazio-tempo. Ma più che un rifiuto dell’oggetto (che è pure pesante da portarsi in giro!) registro soprattutto una pregiudiziale mancanza di pazienza verso i tempi lunghi di preparazione che lo strumento impone. Manca, almeno in partenza, una cultura dell’attesa e il gusto preparatorio di un certo rituale fotografico, forse sintomatico di qualcosa di ben più serio e profondo. Ma ho potuto anche notare proprio fra gli stessi studenti, come chi abbia avuto la pazienza e l’umiltà di apprendere e imparare la disciplina del guardare lontano, non possa più fare a meno di farlo, riuscendo a vedere in maniera diversa anche ciò che sta vicino. Insomma, sempre da un titolo di Wenders :“Faraway, So Close!”!

Le foto di Berlino (2002) a commento di questo Post fanno parte della serie >Sandro Bini “Dream Cities” (work in progress dal 2002).

sabato 14 febbraio 2009

Giuoco di ruoli: intenzionalità autoriale e interpretazione critica in fotografia (2a parte)




Ringrazio moltissimo i pochi ma preziosi commentatori del precedente post. Come immaginavo e come potete verificare il giochino di ruoli ha funzionato! E non immaginate quanto sono contento. E ora, come spesso accade, sono illuminato da nuove letture che aprono le mie modeste immagini a sensibilità nuove e realtà interpretative davvero interessanti e che ovviamente non sospettavo, e che trovo altrettanto ovviamente condivisibili e legittime come del resto postulato. Come promesso vado adesso a precisare i contesti di produzione e diffusione delle tre immagini in precedenza pubblicate. Le foto fanno parte della seconda serie di un progetto, Still(s) Around, di cui ho già parlato nel precedente post dedicato alla fotografia istantanea (Nuova forza all'istantanea: il digitale e la pratica "in between"). Si tratta di immagini selezionate con cura dopo un massiccia attività di accumulo di cui ho già spiegato le complesse e folli dinamiche. Sono immagini diaristiche che, scattate in modo quasi automatico, con una compatta digitale, raccolgono tracce di avventure notturne fra feste, concerti e locali della città. Le tre fotografie sono state esposte per la prima volta con la formula del dittico in una collettiva Deaphoto 4X4 / Quattro Fotografi per Quattro Giorni con il titolo Corrispondences (2007) (appunto una nuova serie del ciclo Still(s)Around). L’accumulo ha preceduto di fatto la nascita del Progetto (insomma è stata scritta prima la musica e poi le parole…) per cui di fatto al momento degli scatti non c’era proprio nessuna intenzionalità progettuale o artistica (anche se questa parola non mi garba) se non quella semiconscia, giustamente individuata da Sara (che mi conosce bene!) del “riconoscimento”, e della testimonianza più personale. I miei compagni e compagne notturni (molti dei quali loro stessi fotografi) che mi hanno visto fotografare e che spesso erano loro stessi in azione, sanno che tutto funziona o non funziona entrando o uscendo dal mood della serata. L’”attivismo contemplativo” di questa pratica lascia poco spazio alla riflessione e alle intenzionalità, ma molto all’indice della mano destra che comanda il pulsante di scatto, che ha spesso la meglio (in termini di velocità) su occhio e pensiero. Venendo allo specifico delle immagini la Strobolight sul soffitto è stata esposta in dittico con la chiazza sul pavimento rosso (ho volutamente messo nel post precedente il divano bianco in mezzo per complicarvi la storia). I due scatti sono stati ripresi nello stesso luogo (uno di quei cascinali di campagna che affittano per le feste) la Strobo era in piena azione e ho voluto fotografarla puntando la macchina in alto. La macchia sul pavimento era proprio sotto. E pure a lei non ho potuto resistere. Ma su cosa poi potessero significare sinceramente quando ho scattato non mi sono minimamente interrogato. Solo dopo e soprattutto adesso, dopo le vostre letture, ho partorito qualche idea e ho tessuto collegamenti. La foto della Strobo che giustamente a Fulvio ricorda lo stile del giovane Stephen Shore a me ricorda The Red Ceiling di Egglestone. Ma chi dei due ha ragione? La macchia sul pavimento che per alcuni richiama giustamente un'isola è per altri una macchia epidermica, per me invece è una cellula, qualcosa di caldo (il rosso del colore) di vivo e di organico (anche se oggettivamente non lo è) che si contrappone nel dittico al verde del soffitto e alla fredda luce sincopata. Ma questo lo penso solo adesso che lo scrivo... Il divano bianco a petali ripreso dall’alto l’ho esposto in dittico con una mano sempre ripresa dall’alto, anche queste immagini sono state riprese nella stessa serata e nello stesso luogo (un locale per concerti) e la corrispondenza è puramente numerico-compositiva… ma i significati? Boh sincerante non saprei dire, mi sfuggono, anzi chiedo di nuovo a voi di aiutarmi. Forse nuovamente una contrapposizione caldo/freddo organico/inorganico (la butto li…). Pare così, tutto sommato, che in fotografia le intenzioni autoriali siano meno importanti delle interpretazioni critiche, anche se naturalmente penso sia fondamentale per chi si occupa di critica fotografica conoscerle (almento quando esse siano dichiarate), ma soprattutto cercare di conoscere i fondamentali contesti di produzione e diffusione delle opere. In ogni caso, sempre, nuove letture delle immagini cambiano il modo di vedere le cose, così come le nuove fotografie il modo con cui osserviamo le altre. Direi quindi che interpretare le proprie immagini è soprattutto quelle degli altri sia uno degli esercizi migliori e anche più divertenti per imparare a guardare in modo diverso ed arricchire così la propria visione e il proprio pensiero.

domenica 8 febbraio 2009

Giuoco di ruoli: intenzionalità autoriale e interpretazione critica in fotografia (1a parte)

La mia esperienza di fotografo e studioso di fotografia mi dice che in fotografia l'intenzionalità autoriale, per fortuna o sfortuna, non conta poi così tanto... Conta l’immagine, contano i contesti e le interpretazioni. Ed è questo forse al tempo stesso il suo limite e la sua forza. Credo infatti che la fotografia sia un arte performativa, come il cinema o il teatro, e che quando nessuno la fa o la guarda la fotografia semplicemente non esista.... L'immagine veicola le intenzioni dell'autore solo in parte, in altra parte, come ha scritto Roland Barthes resta "ottusa", "opaca", e per questo aperta ad altre possibili interpretazioni, la cui legittimità è, come dire, sempre legittima (almeno quando non è fatta in malafede). In questo senso la fotografia è frutto di due incontri e relazioni irrisolte. E’ l'incontro da un lato fra una visione e il mondo (e il mondo purtroppo e per fortuna va sempre al di là delle nostre visioni e le nostre intenzioni), dall'altro fra un immagine di quel mondo e le sue infinite possibilità di lettura. In questo senso (come giustamente sottolineato da autori e studiosi ben più illustri del sottoscritto), rivelando scelte, orientamenti, punti di vista sul mondo, ogni tipo immagine è fortemente politica e rivelatrice di una condizione sociale, di una appartenenza o non appartenenza, anche e soprattutto quando non ha intenzione di esserlo, e questo –indipendentemente- nelle due fasi della sua vita: acquisizione e performance, nel suo prodursi e nel suo mostrarsi. A questo punto manifesto il gusto (un po' didattico lo ammetto!) di coinvolgere i miei lettori invitandoli a dare una interpretazione di almeno una delle immagini che presento a commento visivo di questo mio post. Senza aggiungere altre indicazioni se non quelle implicite del contesto in cui appaiono. Nel leggere queste interpretazioni cercherò di ricordare quali fossero le mie cosiddette “intenzioni artistiche” (ammesso e non concesso che ve ne fossero) e soprattutto i contesti di produzione delle immagini, in modo da stabilire un interessante e divertente confronto per chi vorrà partecipare a questo giuoco. Per chi mi conosce da tempo ovviamente il compito sarà un po’ più facile. Ma anticipo che per il sottoscritto tutti i commenti in buona fede saranno ritenuti legittimamente validi e rispettabili. Coraggio!

giovedì 29 gennaio 2009

On the road again / Il ritorno della Street Photography


Dopo circa un ventennio di letargo ('80-'90) mi pare di registrare col primo decennio del secolo un positivo ritorno di interesse da parte di fotografi e critica intorno alla Street Photography, che dopo i gloriosi anni '50-'70 (Frank, Klein, Friedlander, Winogrand ecc) era un po caduta in oblio in favore del paesaggio (anni '80) e del corpo (anni '90). In realtà questo genere, così legato alla vita quotidiana e al sociale, ha origini ben piu lontane, che vanno dai classici degli anni 20-40 (Kertesz, Brassai, Cartier Bresson ecc) fino a risalire addirittura alle istantanee newyorkesi di Stiglitz di fine 800 (in cui forse per la prima volta il gusto pittorialista lasciava spazio a nuovi temi e nuove visioni urbane) e ai lavori di di taglio piu decisamente sociale di Rijs, Hine, Atget a fine e inzio secolo. Ma piu che ripercorre la storia di un glorioso genere, mi preme raccontare la mia esperienza di fotografo e di docente, che ha vissuto in prima persona questo ritorno di fiamma. Già a metà anni Novanta avevo provato la street con un lavoro su Firenze (Tracce del quotidiano, segni del contemporaneo) ma poi i miei interessi erano andati verso una fotografia piu lenta e contemplativa, incentrata sull’analisi del territorio: con i lavori sulla periferia fiorentina (I Confini della città ) e su ricerche piu personali sempre legate al paesaggio (Confidenze dai luoghi). Parallelamente a questi ultimi lavori e altri, a partire dal 2002, in seguito ad una serie di viaggi nelle capitali europee ho ripreso il gusto della street, agevolato anche dal fatto di utlizzare, non più una reflex o una medio formato, ma una compattina 35 mm con obbiettivo fisso, che mi ridava il gusto, la libertà e la leggerezza dell’istantanea. Ne è nato un progetto ancora inedito (sono presenti solo alcune immagini sul sito Deaphoto) dal titolo Dream Cities, un work in progress che ancora devo concludere prima di trovare un editore disposto magari a pubblicarlo (a proposito se ci fosse qualcuno interessato si faccia pure avanti!). Dopo qualche anno di questo nuovo lavoro ho deciso quindi di trasferire questa mia esperienza nella attività di docente con Deaphoto varando, nel 2006 il nostro primo Corso di Street Photography. La nuova proposta didattica si è i rivelata subito vincente e ancora oggi questo Corso è uno dei più frequentati dai nostri studenti, confermando questa positiva ripresa di interesse per la fotografia on the road, ripresa alla quale, forse, nel nostro piccolo, abbiamo un po’ contribuito e sollecitato. Le due immagini a commento di questo post sono tratte da Dream Cities /Madrid 2007.

giovedì 22 gennaio 2009

Nuova forza all'istantanea: il digitale e la pratica "in between"



Sergio Giusti nel suo ultimo bel libro dedicato all'evoluzione e trasformazione della pratica fotografica con l'avvento del digitale (La caverna chiara. Fotografia e campo immaginario ai tempi della ... ) sottolinea giustamente come con la diffusione degli apparecchi digitali si sia registrato un fenomeno di democratizzazione dell'atteggiamento "in between" della fotografia (ogni momento è degno di essere fotografato anche perché non costa niente ed è sempre cancellabile dalla memoria digitale!!) che diventa (principalmente per motivi economici) alla portata di tutti, con un ritorno prepotente della fotografia istantanea e della possibilità per tutti di coltivare e dare sfogo alla propria "pulsione fotografica" (ma quanto avrà speso Araki di Polaroid?) Parlo di questo fenomeno perchè l'ho vissuto direttamente, infatti, da qualche anno, con l''inevitabile passaggio al digitale, la digicompact è diventata un'accessorio per me inseparabile (come il telefono cellulare) e mi accompagna ogni volta che esco in città, soprattutto di notte. La piccola fotocamera è diventata così una sorta di diario visivo che accumula, con tanto di data e orari, tanti momenti della mia vita. Se non fossi un fotografo, non ci sarebbe niente di particolare, zipperei gli hd di immagini che rivedrei, ogni tanto o forse mai, inviandone qualcuna ai miei amici. Ma la pratica "in beetween", per i "fotoammalati", anche ai tempi del digitale, ha i suoi costi, che non sono quelli delle pellicole, degli sviluppi e delle stampe, ma quelli dei lunghi tempi per selezionare gli scatti che riteniamo interessanti per costruire un progetto valido. Vi racconto, un po' per vanità non lo nego (altrimenti a cosa serve un Personal Blog), come procede il sottoscritto in questo tipo di lavoro, per non ritrovarsi a visitare archivi di miglialia di immagini alla ricerca di qualcosa di buono. Allora, l'80%-90% delle foto vengono cestinate subito dopo lo scatto (o da lì a poco) direttamente dalla scheda di memoria (prima fase di selezione). Un'altro 40%-50%viene cestinata subito dopo il download su pc (seconda fase). Di quello che rimane (vi assicuro che si tratti di un vero stillicidio), un 10%-20% (quando va bene) prende la via di una cartella (una sola per ogni mese con cui organizzo questo tipo di archivio) nominata "Selected". Da li poi le strade possono essere molteplici e disparate, imprevedibili, fino a confluire in altre cartelle nominate con un possibile titolo per un progetto fotografico. In questo modo, e da questa lunga selezione, che richiede tempo (almeno un anno), sono "sopravvissute" le immagini che presento a commento di questo mio post, che fanno parte di un work in progress iniziato nel 2007 che ho chiamato Still(s)Around. Giocando con il titolo - still (ancora) e stills (fermo immagine) - ho voluto raccontare, attraverso le snapshos e la pratica "in between", le notti fiorentine di chi "ancora" ha la curiosità di andarsene in giro per feste, concerti e locali.... almeno finchè dura!!
Un'immagine con la prima serie pubblicata al seguente link:
http://www.deaphoto.it/bini/Still%28s%29around/index.html

venerdì 16 gennaio 2009

Ma siamo sicuri che le ultime foto che facciamo siano davvero le più belle?



Il grande Luigi Ghirri sosteneva che i fotografi italiani non sapessero lavorare sull'Archivio. Sinceramente non so se le cose da allora sono cambiate, ma confrontandomi con i miei studenti e con gli altri colleghi fotografi, noto ancora quella pericolosa tendenza di molti a proiettarsi tutti sul nuovo dimenticandosi del lavoro passato, nel pregiudizio troppo spesso infondato che le nuove immagini siano la sviluppo estremo della loro visione e il vertice massimo della loro ricerca. Con questo non voglio sostenere in modo assoluto che a volte ciò non possa essere, ma invito (al di là di ovvie esigenze professionali), soprattutto per le ricerche più personali, di aver la pazienza, di aspettare, di moderare quella incontrollata voglia di fare vedere a tutti i nostri ultimi scatti. Penso infatti (ma è un'opinione assolutamente personale) che il lavoro di un fotografo per essere correttamente valutato, soprattutto da parte di chi lo ha realizzato, debba sedimentare, ed è per questo motivo credo che penso che il continuo viaggio nel proprio archivio sia un fatto fondamentale per la crescita di un fotografo. Le sedimentazioni possono avere durate variabili e del tutto personali (anche se chi scrive a volte esagera). Ma rivedere i vecchi provini a contatto o piu' o meno recenti cartelle di file è un'esperienza, a volte piacevole, altre frustrante, ma ogni volta nuova, perchè si innesta sulle nuove esperienze che stiamo vivendo in quel momento e regala, a volte, il piacere di ritrovare perle nascoste e quasi dimenticate, misteriosamente legate all'avventura del presente.

Le due immagini pubblicate in questo Post fanno parte della mia Serie Fotografica "Un week end di montagna - Monti Pisani 1998" che fa parte del Work in Progress "Confidenze dai Luoghi" iniziato nel 2002. Se non ricordo male questa serie specifica è stata esposta per la prima volta in una collettiva Deaphoto nel 2004. Stagionatura lunga, quindi, 6 anni! La serie ha avuto a distanza di tempo una valenza "quasi profetica", ma preferisco lasciarvi col mio segreto.

Altre immagini dal Work in Progress al seguente link: